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La sonorizzazione dei film muti è da tempo una delle pratiche tornata in voga tra i musicisti di jazz. In fondo il cinema e il jazz sono figli della stesa temperie culturale. Il cinema è nato in Francia, ma è diventato un’industria negli Stati Uniti, proprio negli anni in cui i musicisti africano americani cominciavano a diffondere la loro musica fuori da New Orleans. A questa coincidenza temporale e culturale si aggiunge un fattore linguistico. L’improvvisazione, in solitudine o con un piccolo gruppo, consente ai musicisti di affrontare con successo il problema dei continui mutamenti di atmosfera di un film: si evita di scrivere una colonna sonora da cima a fondo, mentre si attinge alla creazione estemporanea per cucire insieme un discorso musicale coerente in sé e con la narrazione visiva. D’altra parte l’improvvisazione non è mai stata estranea alla pratica dei pianisti degli anni Dieci e Venti: essi facevano affidamento su un variegato repertorio di brani, spesso raccolti in prontuari divisi per generi e atmosfere, a cui attingere nel corso dell’esecuzione. E non sempre era possibile prepararsi in anticipo, per cui le scelte erano non di rado estemporanee, con gli esiti più diversi. Una procedura impossibile con gli organici più numerosi, anche solo cameristici, per i quali è sempre stato necessario comporre una partitura. La musica africana americana era parte del bagaglio dei musicisti che lavoravano sui film muti: e anche se sonorizzazioni successive hanno associato il cinema muto ad un novelty ragtime frivolo e superficiale, intrinsecamente allegro, se non comico, in realtà quella musica, in particolare quella nera da ballo, rappresentava un ingrediente importante ma né unico né preponderante. Certo il vitalismo del jazz degli anni Venti, il suo calore danzante e contagioso, erano particolarmente adatti a valorizzare i film di genere comico. È con queste premesse che come direttore artistico del Torino Jazz Festival ho immaginato una produzione su uno dei capolavori del muto, il film “Seven Chances” (Le sette probabilità), che Buster Keaton realizzò nel 1925. Questo film, tra i suoi più radicali e iperbolici, richiede un trattamento particolare: procede senza tregua a velocità mozzafiato, è costruito in un crescendo paradossale di situazioni comico-drammatiche, e però al tempo stesso gioca di cesello sulle singole inquadrature, su ogni minima gag e dettaglio drammaturgico. Inoltre il folle, infernale meccanismo della storia trascende il periodo storico e rende il film sempre vivo, attuale e molto, molto divertente. Il Torino Jazz Festival ha una sezione dedicata al cinema e jazz realizzata in collaborazione con il Cinema Massimo e il Museo Nazionale del Cinema. Ogni anno viene presentata una vera e propria rassegna che non si limita a presentare i titoli più noti, ma esplora aree tematiche inconsuete, cerca tra le pieghe della storia del cinema, e produce anche nuovi spettacoli. Quello di “Seven Chances” rientra proprio in questa politica. La realizzazione dello spettacolo è stata affidata a Mauro Ottolini & Sousaphonix. L’unico musicista in Italia - e l’unico gruppo - a poter conciliare filologia d’epoca e spirito innovatore, profonda conoscenza della cultura musicale degli anni Venti e approccio umoristico e disinvolto. E soprattutto in grado di cesellare composizione e improvvisazione, in modo da aderire al mosaico di gag e al disegno narrativo del film. La partitura approntata da Ottolini allinea una serie di classici del jazz e della musica leggera degli anni Venti e Trenta - come Deep Henderson, Lawd, You Made the Nite too Long, Loveless Love - a pagine ragtime meno note. Su tutte, le composizioni di Kjeld Bonfils, uno dei padri del jazz danese, e una oscura canzone di Scott Joplin del 1907, When your Hair is like the Snow, il cui testo è attribuito a tale Owen Spendthrift, pseudonimo di Frederick Forrest Berry. Complici anche alcune composizioni originali, Ottolini dispone questo ricco arazzo di musiche secondo la logica narrativa del film, giocando anche in modo allusivo con i testi e il carattere delle canzoni, come quando Keaton, cercando una moglie per strada, incappa in una serie di equivoci “etnici”, mentre i Sousaphonix swingano con That International Rag di Irving Berlin, canzone che celebra la forza trainante del ragtime americano al confronto delle varie culture musicali del mondo. E mano a mano che l’inseguimento delle aspiranti mogli si fa sempre più gigantesco, affiora parafrasato ma riconoscibile, il riff martellante di Green Chimneys di Thelonious Monk, che per qualche minuto rende la fuga di Keaton drammaticamente angosciante. La partitura aderisce con tale coerenza al film e al suo delirante crescendo, che - contrariamente a quanto accade con operazioni simili - alla fine essa funziona anche come ascolto indipendente: è come se la struttura drammaturgia del film avesse plasmato quella della musica, rendendola autonoma. E tuttavia chi volesse godere dell’esilarante fusione di immagini e musica, può collegarsi al link qui indicato e vedere il risultato che il pubblico del Torino Jazz Festival nel 2014 ha applaudito, dopo essersi fatto molte risate. Stefano Zenni
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